Covid-19 vitus SARS-CoV-2

Gruppo Humanitas

COVID-19 è il nome della malattia da nuovo coronavirus: “CO” indica corona, “VI” virus, “D” significa disease (malattia in inglese) e 19 si riferisce al 2019, l’anno della sua comparsa.

Il nuovo Coronavirus SARS-CoV-2 è un virus respiratorio che appartiene alla grande famiglia dei coronavirus (CoV); il nome Coronavirus deriva dalla presenza di punte a forma di corona sulla superficie del virus.

I coronavirus possono rendersi responsabili di diverse patologie di entità variabile: dal raffreddore a sindromi respiratorie più serie come la MERS (sindrome respiratoria mediorientale, Middle East respiratory syndrome) e la SARS (sindrome respiratoria acuta grave, Severe acute respiratory syndrome).

Quali sono le cause di COVID-19?

COVID-19 è dovuta all’infezione da Coronavirus SARS-CoV-2. Il nuovo coronavirus è stato chiamato Coronavirus SARS-CoV-2 dal “Coronavirus study group” dell’International Committee on Taxonomy of Viruses (la commissione deputata a classificare e a denominare i virus) perché ritenuto “fratello” del virus responsabile della SARS (SARS-CoV).

I coronavirus sono comuni in specie animali come i pipistrelli e i cammelli, ma possono evolvere e infettare l’uomo; questa capacità dei virus presenti nel mondo animale di diventare patogeni per l’uomo si chiama “salto di specie” o spillover. A oggi conosciamo sette tipologie di coronavirus umani, i primi furono identificati a metà degli anni Settanta, mentre gli ultimi sono più recenti (SARS-CoV, 2002; MERS-CoV, 2012), fino al nuovo coronavirus SARS-CoV-2 del 2019. 

Le goccioline del respiro sono la modalità di trasmissione principale del virus; queste possono passare da una persona all’altra attraverso uno starnuto, un colpo di tosse e contatti diretti personali, ma anche attraverso le mani che se non lavate possono essere contaminate e trasmettere il virus ad altri tramite il semplice contatto (si pensi a una stretta di mano: se il soggetto infetto ha le mani contaminate può trasferire il virus sulle mani dell’altro che può a sua volta infettarsi portando una mano alla bocca, agli occhi o al naso). Queste goccioline sono troppo pesanti per rimanere sospese nell'aria e dunque cadono rapidamente, adagiandosi sul pavimento e sulle superfici.

Quali sono i sintomi di COVID-19?

COVID-19 può manifestarsi con sintomi quali raffreddore, mal di gola, tosse e febbre, ma anche con manifestazioni più serie come polmonite e difficoltà respiratorie. Alcuni soggetti possono invece essere asintomatici.

Il periodo di incubazione, ovvero il tempo che passa tra il contagio e la manifestazione dei sintomi, si stima duri dai 2 agli 11 giorni, fino a un massimo di 14 giorni.

In presenza di sintomi o dubbi occorre restare a casa e non recarsi in Pronto soccorso o dal proprio medico. È bene poi chiamare il proprio medico di famiglia, il pediatra o la guardia medica, oppure rivolgersi ai numeri verdi regionali consultabili qui. È inoltre stato attivato il numero di pubblica utilità 1500 del Ministero della Salute.

Diagnosi

Per confermare la diagnosi di COVID-19 è necessario sottoporre il paziente a esami specifici di laboratorio secondo i protocolli “Real Time PCR” per SARS-CoV-2 stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il paziente viene poi sottoposto a un tampone faringeo: un esame rapido, non invasivo e indolore volto a prelevare un campione della secrezione a livello della gola (in particolare sulla mucosa della faringe posteriore) attraverso un bastoncino cotonato che viene inserito in bocca. L’analisi del campione permette poi di verificare la presenza del virus.

Con un ruolo complementare a quello del tampone, anche la TAC può fornire informazioni molto importanti per individuare nelle fasi iniziali questi pazienti. Una TAC senza mezzo di contrasto ed eseguita con tecnica tradizionale è in grado di cogliere i segni polmonari della malattia in fase precoce e fornisce informazioni altamente specifiche per il coronavirus perché i segni presenti in TAC sono ben identificabili.

Trattamenti

Non è ancora disponibile una terapia specifica per COVID-19. Il trattamento si basa sui sintomi del paziente tenendo conto del quadro clinico complessivo.

Come si previene COVID-19?

La prevenzione di COVID-19 è possibile attraverso l’adozione di alcune norme:  

Starnutire e tossire in un fazzoletto o coprendo bocca e naso con l’incavo del gomito.

Buttare via i fazzoletti di carta utilizzati immediatamente dopo l’uso.

Lavare le mani spesso e accuratamente con acqua e sapone per almeno 20 secondi (o con disinfettante per mani a base di alcol al 60%) e in ogni caso sempre dopo aver starnutito, tossito o soffiato il naso.

Evitare di toccare bocca, naso e occhi.

Disinfettare le superfici e gli oggetti che si usano di frequente (smartphone, computer, auricolari) con disinfettanti contenenti alcol (etanolo) al 75% o a base di cloro all’1% (candeggina).

Mantenere almeno un metro di distanza dalle altre persone, evitare strette di mano e altri contatti ravvicinati ed evitare ogni forma di assembramento.

Rimanere a casa e uscire solo per motivi di lavoro, salute o per fare la spesa.

Usare la mascherina in presenza di sintomi o se si presta assistenza a persone malate.

CHIAREZZA

Facciamo chiarezza sul tema, con particolare attenzione al legame tra COVID-19 e rischio tromboembolico, grazie all’aiuto di due nostri specialisti: il dottor Corrado Lodigiani, Responsabile del Centro Trombosi e Malattie Emorragiche, e il professor Maurizio Cecconi, Direttore del Dipartimento Anestesia e Terapie intensive.

Nel messaggio si sostiene che la letalità della malattia sarebbe legata alle microtrombosi venose e non alla polmonite causata dal virus SARS-CoV-2. Ma come stanno davvero le cose?

COVID-19 e trombosi

Spiega il dottor Lodigiani: “La correlazione tra malattie di tipo infiammatorie, come per esempio le polmoniti e la trombosi in generale (soprattutto venosa), è nota da decenni; si pensi che un paziente con una qualunque polmonite batterica o virale, quindi non necessariamente da SARS-CoV-2, viene abitualmente sottoposto a profilassi tromboembolica con eparina a basso peso molecolare, in quanto esiste una forte raccomandazione in tutte le linee guida internazionali, allo scopo di ridurre o eliminare il rischio di insorgenza di tromboembolismo venoso, ovvero trombosi venosa profonda. Si tratta della formazione di trombi nel sangue delle nostre vene che in alcuni casi possono provocare l’embolia polmonare, un evento potenzialmente fatale. La profilassi tromboembolica si effettua in genere mediante l’utilizzo di eparina a basso peso molecolare e tale raccomandazione è il frutto di uno studio scientifico pubblicato nel lontano 1999”.

“Nel nostro Ospedale oltre il 75% dei pazienti ricoverati con COVID-19 nei reparti dedicati e il 100% di coloro che sono ricoverati in Terapia Intensiva viene sottoposto a tromboprofilassi, come risulta da uno studio1 da noi pubblicato proprio oggi. I pazienti con malattie infettive o settiche gravi presentano uno stato di potente infiammazione che attivando il sistema della coagulazione induce uno stato di ipercoagulabilità e li espone quindi a un alto rischio di trombosi. Ciononostante non ci sono evidenze scientifiche che indichino la trombosi come causa unica di accesso in Terapia intensiva”, aggiunge il professor Cecconi.

Terapia anticoagulante a tutti i pazienti COVID?

“Occorre anche fare chiarezza sulla indicazione, diffusa anche da alcuni media, che tutti i pazienti con COVID-19 debbano fare una profilassi con eparina a basso peso molecolare a domicilio prima del ricovero o che debbano essere trattati con dosi sempre terapeutiche durante il ricovero. Anche in questo caso non ci sono evidenze scientifiche che confermino l’efficacia e la sicurezza di questa scelta. Come già detto l’unica indicazione indiscutibile è quella di somministrare eparina a basso peso molecolare a dosi profilattiche nei pazienti ricoverati che ovviamente non presentino controindicazioni, mentre sul suo utilizzo a dosi terapeutiche in pazienti che non abbiano un certo, e quindi documentato, evento tromboembolico non abbiamo a oggi alcun dato e dobbiamo attendere l’esito di alcuni studi randomizzati che anche in Italia sono in partenza in questi giorni. Dobbiamo infatti ricordare che la terapia antitrombotica per pazienti con trombosi venosa profonda o embolia polmonare deve essere proseguita per almeno 6 mesi ed è quindi inconcepibile iniziare una terapia tanto lunga e potenzialmente pericolosa in pazienti di cui non sappiamo con certezza se tale trattamento possa essere di benefico. Dato che mi è stato chiesto da molti pazienti voglio precisare che l’eparina non protegge in alcun modo dal rischio di contrarre il virus”, prosegue il dottor Lodigiani.

“Non è sufficiente – aggiunge il prof. Cecconi – un’idea con un razionale o dimostrare un’associazione tra due elementi per avviare un trattamento. Occorrono prove di efficacia e sicurezza e dunque studi clinici, a maggior ragione quando si parla di COVID-19, una malattia fino a pochi mesi fa sconosciuta”.

“In conclusione, anche alla luce dei risultati dello studio da noi condotto in Humanitas a oggi possiamo affermare che il tromboembolismo venoso è una possibile e prevenibile complicanza della polmonite da virus SARS-CoV-2 e che l’eparina a basso peso molecolare a dosi profilattiche è un noto ed efficace mezzo di profilassi, che pertanto dovrebbe essere utilizzata sempre ma solo nei pazienti ospedalizzati. Occorrono ulteriori studi per conoscere meglio la malattia causata da SARS-CoV-2 e soprattutto come curarla, senza dimenticare che rappresenta una novità per la medicina globale e che non esistono scorciatoie per ottenere risultati scientificamente provati” hanno concluso il prof. Cecconi e il dottor Lodigiani.

Embolo polmonare

Embolo polmonare

L’ipotesi dovrà trovare conferma, ma nel frattempo è autorizzato l’uso di eparina nei pazienti con COVID-19. Ad approfondire l’argomento è il prof. Francesco Rodeghiero (Vicenza)

In circa due mesi, l’esplosione dell’infezione da virus SARS-CoV-2 ha portato negli ospedali migliaia di persone, a cui i medici di tutto il mondo stanno prestando le cure, affrontando i colpi di una malattia di cui tutti ignoravano - e per certi versi ancora ignorano - dinamiche e meccanismi di sviluppo. Sulla gestione dei pazienti con COVID-19 non ci sono capitoli nei manuali di medicina o nelle linee guida, e questo ha obbligato il personale medico a contrastare i sintomi più gravi della malattia, come l’insufficienza respiratoria, senza chiare indicazioni in merito.

Tuttavia, con il trascorrere dei giorni e con l’aumento dei casi, si sono fatte strada diverse ipotesi circa i meccanismi con cui la patologia COVID-19 aggredisce l’organismo: una delle ultime - che dovrà essere verificata tramite opportuni studi clinici - chiama in causa la trombosi venosa e la conseguente formazione di emboli (frammenti di coaguli sanguigni) che, migrando attraverso la circolazione, finiscono per ostruire le arterie polmonari (tromboembolia polmonare). Questo tipo di fenomeno è contrastabile con la somministrazione di eparina, un farmaco che blocca la coagulazione ma che può avere conseguenze potenzialmente gravi se assunto a dosi inappropriate o senza precise indicazioni mediche. Per questo motivo, l’AIFA ha messo a disposizione dei clinici una serie di informazioni utili sulla prescrizione di eparine a basso peso molecolare per il trattamento dei pazienti con COVID-19. 

Molti dei pazienti affetti da COVID-19 entrano in terapia intensiva o la loro situazione si aggrava a causa di una tromboembolia polmonare in atto o che si va instaurando”, spiega il prof. Francesco Rodeghiero, ematologo e già Direttore del Centro Malattie Emorragiche e Trombotiche presso il Dipartimento di Terapie Cellulari ed Ematologia dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza, nonché attuale Direttore Scientifico della Fondazione Progetto Ematologia. “In molti casi, si ritiene che si possano formano dei trombi direttamente a livello delle arterie polmonari, senza che questi arrivino dalla circolazione venosa, soprattutto durante la fase iper-infiammatoria, nella quale il sistema coagulativo si scatena in modo incontrollato. Su questa base, l’uso dell’eparina può avere un suo razionale per limitare gli effetti trombotici che sono causati dall’infiammazione. Per protocollo, a quasi a tutti i pazienti ricoverati in terapia intensiva e allettati viene somministrata l’eparina a dosi profilattiche, proprio per prevenire la formazione di trombi, ma alle persone con COVID-19 potrebbero essere necessarie dosi maggiori”.

Va precisato che la comprensione della malattia causata dal SARS-CoV-2 ha portato a identificare una prima fase, nella quale il virus si replica all’interno dell’organismo, che può avere un decorso asintomatico o pauci-sintomatico (tra i sintomi più ricorrenti si segnalano febbre, mal di testa o tosse): quando possibile, è auspicabile poter intervenire a questo livello, ricorrendo a farmaci antivirali. La fase successiva, infatti, è molto più grave, ed è quella in cui si scatena la reazione infiammatoria, con sintomi più marcati e febbre più alta: è proprio in tale fase che insorge la polmonite interstiziale bilaterale e si osserva un peggioramento della capacità respiratoria. In questo frangente clinico possono essere collocate la cosiddetta “tempesta citochinica” e l’attivazione dei macrofagi, che sono alla base di un quadro di iper-infiammazione, e si possono verificare fenomeni di trombosi venosa e arteriosi, con una sovversione del profilo coagulativo.

Nella seconda fase si può ricorrere agli anti-infiammatori e a farmaci steroidei come il cortisone, e si può associare a entrambi una terapia con eparine a basso peso molecolare”, prosegue Rodeghiero. “In corso di polmonite interstiziale, gli alveoli polmonari collassano l’uno sull’altro e si creano degli interstizi tra bronchi e alveoli, per cui si rende necessaria la somministrazione di ossigeno. Il polmone si trasforma in una sorta di spugna piena di tessuto infiammatorio e si formano emboli. A questo punto, la somministrazione dell’eparina è una delle possibili soluzioni, che tuttavia va valutata caso per caso - sottolinea l’esperto - a seconda delle condizioni del paziente”.

Il lavoro più importante da svolgere nei prossimi mesi sarà quello di studiare le cartelle cliniche dei tanti pazienti con COVID-19, integrando il lavoro con i risultati degli studi attualmente in corso, allo scopo di stabilire un protocollo terapeutico che possa essere valido e subito disponibile, anche nell’eventualità che in futuro dovessimo trovarci ancora a confronto con il virus SARS-CoV-2.


RAGGI ULTRAVIOLETTI E COVID


Covid, scienziati: Così i raggi Uv lo uccidono in pochi secondi

Fotogramma


Secondo gli autori, la luce ultravioletta a lunghezza d'onda corta, o radiazione Uv-C, "quella tipicamente prodotta da lampade a basso costo al mercurio (usate ad esempio negli acquari per mantenere l'acqua igienizzata), ha un'ottima efficacia nel neutralizzare" il nuovo coronavirus. La luce Uv-C ha tipicamente una lunghezza d'onda di 254 nanometri, ovvero 254 miliardesimi di metro, ed è noto il suo potere germicida su batteri e virus, una proprietà dovuta alla sua capacità di rompere i legami molecolari di Dna e Rna che costituiscono questi microorganismi. Diversi sistemi basati su luce Uv-C sono già utilizzati per la disinfezione di ambienti e superfici in ospedali e luoghi pubblici.

Tuttavia, spiegano gli esperti, nell'ambito della pandemia di Covid-19, una misura diretta della dose di raggi Uv necessaria per rendere innocuo il virus non era stata ancora effettuata e finora erano state considerate dosi con valori tra loro molto contraddittori, derivati da altri lavori scientifici riguardanti precedenti esperimenti su altri virus.

"Abbiamo illuminato con luce Uv soluzioni a diverse concentrazioni di virus, dopo una calibrazione molto attenta effettuata con i colleghi di Inaf e Int - illustra Mara Biasin, docente di Biologia applicata dell'università degli Studi di Milano - e abbiamo trovato che è sufficiente una dose molto piccola (3.7 mJ/cm2), equivalente a quella erogata per qualche secondo da una lampada Uv-C posta a qualche centimetro dal bersaglio, per inattivare e inibire la riproduzione del virus di un fattore 1.000, indipendentemente dalla sua concentrazione".

"Con dosi così piccole - conferma Andrea Bianco, Tecnologo Inaf - è possibile attuare un'efficace strategia di disinfezione contro il coronavirus. Questo dato sarà utile a imprenditori e operatori pubblici per sviluppare sistemi e attuare protocolli ad hoc utili a contrastare lo sviluppo della pandemia".

E il sole? Il risultato di questo lavoro è servito anche al fine di validare uno studio parallelo, coordinato da Inaf e Statale di Milano, per comprendere come gli ultravioletti prodotti dal sole, al variare delle stagioni, possano incidere sulla pandemia inattivando in ambienti aperti il virus presente in aerosol, contenuto ad esempio nelle piccolissime bollicine prodotte dalle persone quando si parla o, peggio, con tosse e starnuti. "Il nostro studio - osserva Fabrizio Nicastro, Ricercatore Inaf - sembra spiegare molto bene come la pandemia Covid-19 si sia sviluppata con più potenza nell'emisfero nord della Terra durante i primi mesi dell'anno e ora stia spostando il proprio picco nei Paesi dell'emisfero sud, dove sta già iniziando l'inverno, attenuandosi invece nell'emisfero nord".

Per quanto riguarda il sole ad agire non sono i raggi ultravioletti corti Uv-C (anch'essi prodotti dal sole, ma assorbiti dallo strato di ozono della nostra atmosfera), bensì i raggi Uv-B e Uv-A, con lunghezza d'onda tra circa 290 e 400 nanometri, quindi maggiore degli Uv-C. Come dimostrato da una recente misura in luce Uv-A e Uv-B dal Laboratorio di biodifesa del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, in estate - in particolare nelle ore intorno a mezzogiorno - bastano pochi minuti perché la luce ultravioletta del sole riesca a rendere inefficace il virus.

Tali risultati sono in buon accordo anche con quelli del primo articolo firmato dal team italiano, se opportunamente rapportati alle lunghezze d'onda più lunghe degli Uv-B e Uv-A. Lo studio di Inaf e università degli Studi di Milano è in linea con il modello del laboratorio di biodifesa delle forze armate americane, originariamente proposto nel 2005 da Lytle e Sagripanti, per spiegare l'andamento stagionale di certi virus, come ad esempio quelli influenzali.

Sebbene altri fattori possano avere influenzato l'attenuazione del contagio che si registra nel nostro Paese da alcune settimane (distanziamento sociale, mutazione del virus, e così via), per gli scienziati "potrebbe essere istruttivo verificare nei mesi autunnali se una eventuale seconda ondata di contagi possa essere collegata alla minore efficacia del sole nel neutralizzare il virus e quindi capire se il ruolo della radiazione emessa dal Sole sia stato determinante" per l'attenuazione dei contagi, o abbia avuto solo un ruolo coadiuvante, e in che misura.

"Gli studi effettuati sono di grande rilievo nell'ambito del contrasto alla pandemia Covid-19 e dimostrano come l'approccio multidisciplinare condotto da ricercatori di istituti diversi possa portare a eccellenti risultati", ragiona Mario Clerici, docente di Patologia generale alla Statale e direttore scientifico dell'Irccs di Milano della Fondazione Don Gnocchi.

Quanto all'Istituto nazionale di astrofisica, "le attività intraprese contro la pandemia sono iniziate nello scorso marzo su specifico impulso diretto dal ministero di Università e Ricerca a tutte le università ed enti di ricerca. Le tecnologie e le competenze sviluppate in ambito astrofisico - osserva Giovanni Pareschi dell'Inaf - trovano ora applicazione e grande utilità per la società civile e sono utili al mondo imprenditoriale".

Il contributo dell'Istituto "va oltre le specifiche competenze tecnologiche nel trattare la radiazione - fa notare il presidente dell'Inaf Nichi D'Amico - C'è un altro aspetto più profondo, connesso a una delle principali tematiche dell'astrofisica moderna e cioè la ricerca di forme di vita nell'universo, che con l'astrobiologia vede proprio lo sviluppo di conoscenze e tecnologie avanzate per la ricerca di potenziali forme di vita primordiale nell'universo, dalle molecole organiche ai batteri, ai virus, e per la comprensione del potere incentivante o disincentivante della radiazione, e in generale dei fattori ambientali, nello sviluppo della vita in altri mondi".


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